Non c’è genere più paradossale dei survival horror. Se concedersi la visione di un film che ha il chiaro intento di spaventare lo spettatore svela già di per sé preoccupanti smanie autolesionistiche, evidentemente connaturate a buona parte della nostra specie, aggiungere alla formula l’incognita dell’interattività ha sicuramente del patologico, il chiaro segnale di una psicosi delirante che necessiterebbe l’internamento in qualche struttura specializzata.

Resident Evil, prima e meglio di altre saghe, ha incarnato perfettamente questa sinistra esigenza, l’inspiegabile desiderio di buttarsi a capofitto in avventure il cui triste destino del protagonista è segnato, chiarificato ed esibito sin nelle premesse. L’impalpabile e fatale attrazione per il Romanticismo, nel senso di Sturm und Drang, cioè di personaggi che corrono impotenti verso una fine infelice, è evidentemente catartica, una validissima alternativa allo psicologo. Non si spiegherebbe altrimenti un successo tale, un numero così...