Con Oblivion mi sono sentito quasi in obbligo, costretto dal sentire comune a proseguire in un’epopea che non mi aveva mai coinvolto realmente, ostaggio della stessa smania che troppe volte mi ha forzato a sorbirmi, per intero, un romanzo, un libro o una serie TV di qualità scadente, solo per l’impegno tassativo, preso poi chissà quando, perché o con chi, di finire sempre ciò che è stato iniziato.

Non era un problema del gioco, ovviamente. Le qualità oggettive, di uno dei migliori RPG della scorsa generazione di console, sono evidenti a chiunque. Semplicemente non c’era feeling, come quella volta che ho rimandato al mittente le avances di una bionda dal fisico perfetto, solo perché non mi piacevano le sue scarpe (questa me la sono inventata di sana pianta, lo giuro).

L’esperienza è stata scottante e deludente al punto che, a torto, all’epoca della sua release originaria decisi di evitare a piè pari l’acquisto di Skyrim, per molti versi un “more of the same” ambientato nell’omonima regi...