La sospensione dell’incredulità è un meccanismo difficile da riprodurre, alimentare, sostentare lungo tutta la durata di un’opera. Soprattutto quando si eccede con l’azione, la fantascienza, il coinvolgimento di poteri sovrannaturali, bisogna calibrare con estrema attenzione ogni elemento della sceneggiatura, guardandosi bene dal farsi prendere la mano, senza mai mettere in pericolo un equilibrio già di per sé precario e delicato. Serve un oculato lavoro di background, un’intensiva introspezione biografica sui personaggi, investire tempo ed energie nell’immaginare un mondo coerente, credibile, il più possibile vivo e autosufficiente. Non c’è la garanzia di ottenere il risultato sperato, né in qualunque caso viene esplicitata, da parte degli autori, la priorità di raggiungere un elevato (o eccessivo) livello di uniformità.

Tuttavia, questo della sospensione dell’incredulità, è un guado che tutti i media, prima o poi, devono almeno tentare di attraversare. La letteratura ha tratto indiscutibili vantaggi dalla stagione del Realismo e Verismo. Il teatro, grazie ad artisti del calibro di Stanislavskij e Cechov, all’inizio del Novecento, ha bruscamente evoluto stilemi e canoni attraverso cui si esprimeva la messa in scena. I fumetti vivono di continui reboot e cambi di registro per inseguire l’attualità. Cinema e serie TV, relativamente ai budget su cui possono contare le varie produzioni, con fortune alterne regalano all’audience spettacoli audio-visivi avvolgenti e in certi casi persino ipnotici. Con i videogiochi, da questo punto di vista, le tappe da superare, per il conseguimento di risultati comparabili agli altri media, sembrerebbero ancora moltissime. Un ritardo, nonché un gap apparentemente incolmabile, a dire il vero, visti i differenti binari, per definizione paralleli, lungo cui si articolano i due elementi cardine su cui si basano la maggior parte dei titoli: narrazione e gameplay.

Mass Effect Andromeda screenshot

Riuscirà il nuovo Mass Effect Andromeda a non incappare negli stessi errori narrativi della vecchia trilogia? Avremo finalmente dialoghi credibili o ci ritroveremo nuovamente con un eroe in grado di convincere e plagiare chiunque gli si para di fronte?

La prima volta che si è sentito parlare di dissonanza videoludica fu nel blog di Clint Hocking, attualmente sviluppatore presso Ubisoft Toronto. Tirò fuori dal cilindro questa espressione per spiegare il disagio provato nel vivere in prima persona gli orrori della bellissima Rapture nel primo BioShock, un gioco che solo negli slogan pubblicitari prometteva una libertà d’azione e di scelte che alla prova dei fatti è rimasta in buona parte sulla carta. Il concetto, in soldoni, evidenzia e definisce lo scollamento che intercorrerebbe tra finalità ludiche e necessità narrative, tra la somma delle azioni compiute dall’utente attraverso l’avatar e le tematiche trattate nella trama. Quante volte, per esempio, abbiamo indossato i panni dell’omicida seriale che, di punto in bianco, durante le cutscene, impallidiva di fronte alla morte di qualche alleato o al brutale assassinio di un innocente? L’esempio classico, citato un po’ da tutti, ce lo fornisce Uncharted: Drake ha il grilletto piuttosto facile, ma nelle fasi non interattive dà un’idea di sé ben diversa, impegnato com’è nell’evitare a tutti i costi lo scontro diretto.

Recentemente, Jonathan Blow, game designer che nel suo curriculum vanta un capolavoro del calibro di Braid, in un’intervista al Time ha rispolverato la nozione di dissonanza videoludica, riaccendendo il dibattito accademico (e non) sulla difficoltà di scrivere una buona sceneggiatura per un videogioco.

“Quando le persone affermano che i giochi abbiano delle belle storie, penso lo facciano solo paragonandole a quelle di altri videogiochi. Paragonarle a bei film o romanzi vi farà capire che le storie in questione sono terribili. Al massimo si possono tirare in ballo quelle delle serie TV in cui c’è un cattivo e qualcuno che cerca di sconfiggerlo.”

Una posizione certamente forte, che magari non considera eccezioni come The Last of Us, ma che individua (spietatamente) il nervo scoperto: è molto difficile far coesistere l’imperativo di divertire attraverso l’interazione, con lo storytelling di stampo classico, quello che necessita di dialoghi e scene d’intermezzo per esprimersi. Il punto, in fin dei conti, è proprio questo: lo stampo classico, che difficilmente funziona e che, anche nei rari casi in cui lo fa, mette in seria crisi la sospensione dell’incredulità.

“è molto difficile far coesistere l’imperativo di divertire attraverso l’interazione, con lo storytelling di stampo classico”

Jonathan Blow, volutamente o meno, si è fatto una gran pubblicità in questa intervista, dal momento che è uno dei pochi che meglio interpreta la nuova modalità con cui si scriveranno buona parte delle trame del domani, una modalità non certo inedita, ma che solo ultimamente sta acquistando forza e una fisionomia ormai accettata e riutilizzata da buona parte dell’industria. Parliamo ovviamente della così detta “narrazione ambientale”, cioè quel modo di raccontare attraverso le immagini, gli scenari, i dialoghi catturati dal videogiocatore che esplora l’ambiente di gioco. Il game designer americano si è fatto una gran pubblicità, dicevamo, e non potrebbe essere altrimenti visto che uno dei titoli che meglio sviluppano questo tipo di narrazione è proprio il suo The Witness. Tramite i puzzle logici, tramite le misteriose costruzioni che si fondono con l’ambiente naturale dell’isola, tramite i registratori abbandonati da chissà chi, chissà quando, possiamo solo ipotizzare gli eventi che si sono consumati nel posto e che hanno dato origine al mistero attorno cui si sviluppa l’intera avventura.

The Legend of Zelda Ocarina of Time screenshot

Se abbiamo amato tanto The Legend of Zelda: Ocarina of Time lo dobbiamo soprattutto al modo in cui riusciva a raccontare storie semplicemente facendoci trovare strane pietre e iscrizioni all’interno dei vari villaggi e dungeon che esploravamo.

Di meglio ha saputo fare Inside, secondogenito di Playdead, software house danese finita sotto i riflettori nel 2010 grazie al bellissimo Limbo. Nei panni di un bambino, ci si muove in quella che sembra la distopia definitiva, figlia dell’unione e fusione tra Brave New World, 1984, Fahrenheit 451 e Il Signore delle Mosche. A mano a mano che si risolvono enigmi e si esplorano gli anfratti di un complesso industriale ora pieno di strani macchinari, ora abbondantemente sommerso dall’acqua, i misteri e le domande non fanno che moltiplicarsi. Sullo sfondo, una fila di catatonici esseri umani, ci parla dei progressi ottenuti sul controllo mentale. Animali feroci sembrano in balia di violenti parassiti che ne determinano i movimenti. Furiose creature marine sono il frutto di tremendi esperimenti sul genoma umano.

È lo stadio finale (terminale?) di una sceneggiatura coerente con sé stessa sino alle estreme conseguenze, sino al categorico rispetto di quella regola aurea (spesso non osservata) che pretende che un mondo immaginifico non dovrebbe mai spiegare i suoi equilibri e meccanismi perché sono (o dovrebbero) essere condivisi da chi quel mondo lo abita effettivamente. Al giocatore è concesso il piacere di superare indenne le trappole, l’estasi di fronte a panorami (sinistramente) ammalianti, le decine di suggestioni che si materializzano a mano a mano che si procede con l’avventura, ma gli è negata qualsiasi spiegazione, indizio, suggerimento.

The Witness e Inside sono due ottimi esempi di narrazione ambientale, un’espediente estremamente efficace per far coesistere gameplay e storytelling. Non è una scoperta moderna, The Legend of Zelda: Ocarina of Time raccontava leggende e gesta eroiche ad ogni angolo, ma solo adesso gli sceneggiatori stanno iniziando ad adattare e aggiornare le proprie modalità con cui scrivere trame per un videogioco. Perché solo attraverso nuove regole e abitudini si riuscirà a superare la dissonanza ludonarrativa e a distinguere sempre più il videogioco da tutti gli altri medium già esistenti, anche e soprattutto nel modo in cui sapranno raccontarci storie.