Continua il ciclo di articoli, a cura dell’Archivio Videoludico, dedicati alle realtà italiane che producono videogiochi. Questa volta è il turno dei milanesi di We Are Müesli, un duo di unconventional storyteller – così si definiscono nel sito ufficiale – che al mondo dei videogiochi, in un certo senso, sono giunti per vie traverse. We Are Müesli è tra i ventuno sviluppatori che hanno aderito all’Area deV dell’Archivio, sezione che mira alla salvaguardia e alla valorizzazione dei videogiochi realizzati in Italia.

1. La prima domanda, di rito, non poteva mancare: da dove venite? Chi siete? Dove andate?

Veniamo “da fuori” (fuori dai videogiochi) ma ora siamo un duo indipendente che fa game design in ambito narrativo, artistico e culturale, con l’ambizione di costruire qualche ponte in più tra questo mezzo espressivo e altri mondi. Semplicemente, siamo una penna (Matteo, che viene dalla sceneggiatura televisiva e dal copywriting) e una matita (Claudia, che viene dall’illustrazione e dal graphic design). Come We Are Müesli abbiamo trovato nei videogiochi una prospettiva nuova e gratificante dalla quale raccontare storie.

2. Con CAVE! CAVE! DEUS VIDET vi siete lanciati nel mondo dei videogiochi, o per meglio dire del game design. Volete raccontarci brevemente questa esperienza?

L’esperienza è nata a fine 2012 dalla voglia di sperimentare insieme un progetto “nostro”, alternativo al lavoro creativo che svolgevamo da anni nel design tradizionale. Con l’incoscienza di chi non aveva mai fatto un videogioco prima, abbiamo sviluppato l’Episodio 0 di CAVE! CAVE! in cinque mesi, nottetempo e nei weekend, per partecipare al contest Bosch Art Game indetto dalla fondazione olandese che promuove l’arte del pittore del ‘500 Jheronimus Bosch. Il gioco, una visual novel a metà tra storia dell’arte e genere fantastico (col senno di poi, l’abbiamo definito art-fi, sulla falsariga di sci-fi), ha vinto il contest a ottobre 2013 e, da lì, ci ha portato a girare per tutto il 2014 la comunità indie internazionale, in eventi grandi e piccoli – dagli Stati Uniti alla Polonia, dalla Grecia alla Germania – facendoci innamorare di questo medium e dei tanti talenti creativi indipendenti che ci lavorano in tutto il mondo. Per noi è stato un bellissimo salto nel buio, tanto rischioso e faticoso quanto appagante e stimolante, e che ora, nel 2015, ci sta portando verso nuove esperienze oltre a quella di CAVE! CAVE!. Per citarne un paio: una nuova visual novel dedicata alla città di Palermo (The Great Palermo), nata nel corso di una residenza artistica in Sicilia lo scorso aprile, o la partecipazione a un bando UNESCO per un gioco su pace e sviluppo sostenibile, di cui siamo finalisti in team con Pietro Polsinelli e Daniele Giardini con il puzzle life-sim Once Upon a Tile.

CAVE! CAVE! DEUS VIDET

CAVE! CAVE! DEUS VIDET

3. Di recente avete realizzato Venti Mesi, collezione di storie interattive sulla Resistenza e la Liberazione dal nazifascismo. Un titolo che affronta il tema della memoria storica attraverso un medium che non è certo abituato a questo genere di opere. Qual è secondo voi il potenziale dei videogiochi da questo punto di vista?

In una parola: infinito. Per come la vediamo, la Storia con la S maiuscola è una fonte rinnovabile di energia creativa straordinaria, dalla quale trarre storie che i videogiochi possono e devono (ma forse ancora non vogliono) raccontare, come fanno cinema, narrativa e altri media. Forse il problema sta tutto nella parola gioco, che istintivamente evoca un immaginario infantile, o associato alla sola idea di divertimento. Si ha allora timore ad affrontare temi importanti come guerra, pace, lavoro, responsabilità, memoria. Questo ci pare un concetto di game design di retroguardia, limitatissimo, quasi reazionario, come se un medium dovesse per forza suscitare uno e un solo possibile sentimento nel suo pubblico; come se – per fare un paragone – l’esistenza dei film comici non ammettesse altri generi cinematografici possibili. E non parliamo di serious games o di giochi educativi, ma semplicemente della libertà (e della responsabilità) di fare anche intrattenimento altro, che possa provocare, commuovere, dare piacere estetico, far riflettere o arrabbiare o ricordare, e non solo divertire. Non siamo certo né i primi né gli unici a vederla così. Solo per fare nomi italiani, sul piano politico-filosofico Paolo Pedercini fa giochi così da una vita, ma è poi la stessa attitudine adottata dai Santa Ragione con il loro recente Wheels of Aurelia, di cui abbiamo avuto la fortuna di scrivere storia e dialoghi. L’opera parla di un periodo complesso come gli anni di piombo, e offre un coefficiente di difficoltà multiplo data la meravigliosa scelta di un genere tipicamente leggero come il racing.

Venti Mesi

Venti Mesi

4. Potete anticiparci qualcosa dei vostri progetti futuri in ambito videoludico?

Al momento abbiamo per le mani almeno due prototipi che ci piacerebbe sviluppare nel corso del 2016. Il primo è We’ll Meet Again, una puzzle novel per due giocatori che abbiamo abbozzato in 48 ore alla scorsa Global Game Jam di Milano, e che ha avuto ottimi riscontri tanto da essere selezionata tra i nove titoli dell’European Innovative Games Showcase alla GDC Europe di Colonia lo scorso agosto. Si basa sul concetto di interdipendenza, nel senso che i due giocatori hanno rispettivamente indizi visivi e sonori all’insaputa l’uno dell’altro, e per risolvere gli enigmi devono quindi parlarsi, condividerli e capire insieme quale sia la soluzione. Un’esperienza molto umana, insomma, per la quale ci piace dire che, come requisiti di sistema, “nessuna connessione è richiesta, all’infuori delle parole”. L’altro prototipo è SIHEYU4N, un action puzzle collaborativo per quattro giocatori che abbiamo realizzato in collaborazione con il dev olandese Aran Koning e presentato alla Beijing Design Week di Pechino, a fine settembre, ospiti di un progetto di branding a cura dell’architetto Fabrizio Gurrado dello studio a+a. Siheyuan è il nome delle tradizionali case di corte della vecchia Pechino, ormai in via di estinzione; l’idea è stata di riprodurre in modo astratto e “playful” la dimensione di aggregazione sociale di queste abitazioni, attraverso un piccolo falling block game in cui i giocatori si passano e scambiano i pezzi per completare i livelli. Insomma: se non si è capito, ultimamente siamo molto affascinati dalle meccaniche dei local multiplayer cooperativi!

We'll Meet Again

We’ll Meet Again

5. Di industria italiana del videogioco si parla sempre più spesso. Secondo voi che prospettive hanno, o vorreste che avessero, i dev in Italia?

Di certo vediamo la sproporzione tra consumo e produzione di videogiochi in Italia – qualcosa come 50 a 1 – come un bicchiere mezzo pieno per l’industria; se in Italia si gioca tanto ma si fanno relativamente pochi giochi, significa che esiste un enorme margine di crescita, non tanto che i dev italiani siano indietro rispetto a quelli del resto d’Europa o del mondo. D’altra parte, per quella che è la nostra personalissima visione di questo medium, ci piacerebbe una piccola quota di sperimentazione in più, di “artigianato” nel senso eccellente del termine, nelle produzioni italiane; un’ambizione all’internazionalità non solo sul piano commerciale ma anche creativo. Un videogioco nasce globale per natura da un punto di vista distributivo, perché la rete è uguale per tutti; e proprio per questo crediamo sia meglio cercare di distinguersi e percorrere altre strade – che magari non porteranno a fare il botto, o a illudersi di farlo, ma che possono diventare un bel mestiere onesto e appassionante – piuttosto che cercare di replicare ciò che ha già avuto successo altrove. È una biodiversità che va costruita nel tempo, alla quale speriamo, nel nostro piccolo, di dare un contributo.