Le cose nascono e finiscono, ma non per questo vengono dimenticate. In cinque anni si può fare e raccontare molto. L’esperienza di Urustar, lo studio genovese nato nel 2010 e che ha concluso le proprie attività nel febbraio 2015, non è passata inosservata. Tra le opere della software house ligure figura per esempio Zwan, finalista al concorso indetto nel 2012 dalla Jheronimus Bosch 500 Foundation, in occasione delle iniziative promosse per ricordare l’artista olandese a 500 anni dalla sua morte.
L’Archivio Videoludico ha intervistato Federico Fasce e Marina Rossi, co-fondatori di Urustar. Cinque domande per scoprire quel che è stato e quel che sarà.

 

1. La prima domanda, di rito, non poteva mancare: da dove venite? Chi siete? Dove andate?

Fisicamente veniamo da Genova, anche se ci piace molto vedere posti nuovi e vorremmo poter dire che veniamo, per esempio, da New York. Per il resto, veniamo dal mondo del game design e della cultura pop. Siamo due persone che non riescono ad adattarsi completamente al mondo che le circonda e che forse si sentono più in sincronia con la cultura fluida e iperliberale dei millennial che con quella dei nostri coetanei. Ci piacerebbe fare cose con un significato, che mettano in discussione i molti preconcetti che ancora vediamo in giro. Dove andiamo non lo sappiamo bene nemmeno noi, sicuramente ci piacerebbe continuare a fare giochi, ma vogliamo anche scoprire cose nuove giorno per giorno.

2. Quali sono stati i momenti più importanti del vostro percorso professionale in Urustar? Quel titolo a cui siete particolarmente affezionati? Quell’aneddoto che non avete mai raccontato?

Il titolo che probabilmente più ci rappresenta è quello che non abbiamo mai completato, YMI (Betelgeuse). È il concept su cui abbiamo iniziato a lavorare una volta conclusa l’esperienza di Zwan e ogni volta che ne parliamo torna imperante quella voglia di portarlo avanti, nonostante tutto. Dentro c’è fantascienza, solitudine, intelligenza artificiale, relazioni. E la protagonista è fortemente ispirata a Cara Ellison, autrice che stimiamo molto e che ci aveva commosso con una recensione molto sentita di Zwan.

Urustar

Zwan

 

3. Nel febbraio 2015 avete annunciato la chiusura di Urustar. Come avete vissuto quel momento?

La verità è che lo avevamo deciso da diverso tempo, ma non riuscivamo a trovare il momento giusto per comunicarlo. Durante la Game Developers Conference Europe del 2014, Marina ha ascoltato la presentazione di Don Daglow, veterano dell’industria che in dieci domande ha cercato di sviscerare il momento in cui si decide di lanciarsi nel vuoto e diventare sviluppatori indipendenti. Per noi è stato diverso: siamo nati con una formazione da game designer, e lo sviluppo indipendente è arrivato solo in un secondo tempo. Nel momento in cui ci siamo posti quelle stesse domande come se avessimo dovuto iniziare da zero, siamo stati messi di fronte al fatto che non c’erano le condizioni necessarie per andare avanti. A quel punto stavamo ancora attendendo il risultato per un bando europeo a cui avevamo partecipato: quando non siamo stati selezionati ne abbiamo preso atto. Quella Game Developers Conference Europe è stata per noi un vero e proprio reality check. Ci siamo resi conto del fatto che non stavamo andando nella direzione giusta, che stavamo sprecando le nostre energie e i nostri soldi. Abbiamo capito di aver bisogno di chiudere e voltare pagina. Il game development rimane la nostra passione, ma ci devono essere le giuste condizioni per ricominciare.

Urustar

The Wrong Lizard

4. Che strade avete intrapreso dopo l’esperienza Urustar? Lavorate ancora nel settore?

Sì e no. Federico è stato assunto da ETT, un’azienda che si occupa, tra le altre cose, di allestimenti interattivi per i musei. Per loro cura alcuni progetti legati all’edutainment, e cerca di portare la sua esperienza di game designer in un campo, quello museale, che sta attraversando cambiamenti interessanti diretti a un maggiore coinvolgimento delle persone che vivono quegli spazi. È un’esperienza stimolante dalla quale si impara molto, non solo a livello puramente tecnico, ma anche sul piano umano, nel bene e nel male. Marina invece sta seguendo le attività di Game Happens!, iniziativa nata lo scorso anno sotto il marchio di Urustar che ora sta prendendo la forma di un collettivo di persone che sviluppano giochi e curano eventi legati al mondo ludico. Game Happens! ha avuto origine come costola nonprofit di Urustar, per creare occasioni di incontro e scambio per game developer in Italia e in particolare in Liguria. Oltre all’evento annuale che si tiene a fine giugno a Genova, ci stiamo dedicando a curare altri eventi durante l’anno per rafforzare la comunità locale.

Urustar

Monarch

5. Di industria italiana del videogioco si parla sempre più spesso. Secondo voi che prospettive hanno, o vorreste che avessero, i dev in Italia?

Siamo entrambi ottimisti! Abbiamo tutte le carte in regola per diventare un’industria rilevante nel panorama indipendente europeo e si iniziano a vedere i primi frutti nei lavori di microteam come Santa Ragione e We Are Müesli. Per non parlare di persone come Alex Camilleri e Mattia Traverso che stanno crescendo professionalmente grazie a un percorso di studi e di lavoro all’estero. La qualità dei team italiani si sta alzando progressivamente, stanno nascendo scuole sempre migliori, e – anche se il nostro paese resta un posto difficile per fare videogiochi – finalmente qualcosa si muove. Magari non siamo ancora ai fatturati stellari, ma a livello creativo c’è un fermento sempre più visibile. Crediamo che questo sia fondamentale per costruire un’industria solida.